La Commissione Europea ha presentato, lo scorso 20 marzo, due proposte: una Direttiva dedicata alla tutela delle condizioni di lavoro dei tirocinanti, e una Raccomandazione finalizzata all’aggiornamento del framework, ideato nel 2014, per la promozione di tirocini di qualità. Questi documenti sono l’esito di un lungo percorso di analisi, ascolto degli stakeholders – e in particolare delle Parti Sociali, studio e monitoraggio delle diverse regolamentazioni nazionali, che ha portato il Parlamento Europeo già nel giugno dell’anno scorso a chiedere alla Commissione un intervento che andasse nella direzione di un aggiornamento del framework e, più in generale, di una maggiore attenzione nei confronti dei tirocini (per approfondire vedi M. Corti, Tirocini di qualità. Il Parlamento Europeo chiede maggiori garanzie, in Bollettino ADAPT, 11 settembre 2023, n. 30). Le proposte avanzate dalla Commissione, presentano, però, alcuni punti critici, soprattutto per il contesto italiano.
Prima di approfondirli, è opportuno mettere a fuoco il tema in oggetto. A cosa si fa riferimento, quando si parla di tirocini? Ad esempio, nel contesto italiano le differenze sussistenti tra un tirocinio curriculare svolto nell’ambito dei Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (la “vecchia” alternanza scuola-lavoro) e un tirocinio extracurriculare svolto da un over-40 in cerca di nuova occupazione sono evidenti (in tema vedi T. Galeotto, Il tirocinio e le sue molteplici articolazioni nell’incrocio tra definizioni nazionali e regolazioni regionali, ADAPT University Press, Materiali di discussione, 4/2022). A livello comunitario, si fa riferimento a quattro diverse tipologie di tirocinio: open-market, cioè tirocini sganciati da ogni tipo di percorso formativo formale, regolati da accordi bilaterali tra un tirocinante e un training provider, senza il coinvolgimento di un ente terzo; tirocini ricompresi nell’ambito delle politiche attive del lavoro; tirocini utili allo svolgimento di un periodo di praticantato; tirocini curriculari. Il framework per i tirocini di qualità approvato nel 2014 faceva riferimento alle prime due tipologie di tirocini, e quindi in Italia impattava sui soli tirocini extracurriculari. La nuova proposta di Raccomandazione, invece, vuole ricomprendere tutte le diverse articolazioni del tirocinio, compresi quelli per lo svolgimento di periodi di praticantato o curriculari.
È questa una prima, significativa, differenza rispetto al passato. Che può però generare una pericolosa eterogenesi dei fini. La proposta di Raccomandazione prevede esplicitamente, al punto 6, l’introduzione di una retribuzione adeguata a favore dei tirocinanti. Come impatterebbe tale previsione sul contesto italiano, dato il suo riferirsi a tutte le diverse articolazioni del tirocinio?
Attualmente, in Italia, i tirocini curriculari non sono retribuiti. E risulta difficile immaginare che, ad esempio, nell’ambito dei percorsi ITS Academy si possa prevedere un’indennità obbligatoria per i periodi di stage, dati gli oneri già sostenuti dalle imprese nell’ospitare e soprattutto attivamente formare questi studenti durante i loro brevi percorsi di stage. Lo stesso vale per gli studenti dei percorsi di Istruzione e Formazione Professionale (IeFP), per i quali un’esperienza di stage aziendale è un tassello fondamentale del proprio percorso: le realtà produttive scelgono di collaborare con questi sistemi formativi, investendo tempo e risorse, per contribuire alla formazione di questi giovani e per proporre loro, in alcuni casi, assunzioni e percorsi di carriere. Non sono un elemento accessorio, ma decisivo per questi percorsi: senza imprese non c’è formazione professionale. A fronte dei costi che queste già sostengono, il rischio di un tirocinio che indiscriminatamente preveda un’indennità obbligatoria è quello di vedere le aziende fare un passo indietro, col rischio di destabilizzare il già eterogeneo sistema IeFP, frenare la crescita – incoraggiante e confermata dai più recenti dati – del sistema ITS Academy, minare il decollo del fragile sistema IFTS, mentre le esperienze di PCTO a scuola, che in un caso su due oggi prevedono proprio l’attivazione di stage, si ripiegherebbero esclusivamente su ciò che il sistema scolastico può offrire in autonomia o grazie al ricorso ad attività seminariali, riportando l’Italia indietro di più di vent’anni.
Nel nostro Paese l’idea di prevedere un’indennità per i tirocini curriculari non è una novità assoluta. Quasi due anni fa era stato depositato un Testo Base redatto dalle commissioni lavoro e cultura che andava in questa direzione (vedi T. Galeotto, Tirocini curriculari e indennità obbligatoria: i punti salienti del testo di riforma unificato, in Bollettino ADAPT 30 maggio 2022, n. 21). La proposta era frutto di un disegno politico complessivo che voleva promuovere il tirocinio curriculare, limitare quello extracurriculare (in tema vedi M. Tiraboschi, Come mettere il carro davanti ai buoi. Brevi note sui tirocini dopo la legge di bilancio per il 2022, Bollettino ADAPT, 31 gennaio 2022, n. 4), e favorire il ricorso all’apprendistato professionalizzante (anch’esso oggetto di una proposta di riforma. In tema vedi M. Colombo, G. Impellizzieri, M. Tiraboschi, E. Massagli, A proposito della ennesima proposta di riforma legislativa dell’apprendistato: i rischi di un’eterogenesi dei fini, in Bollettino ADAPT 11 aprile 2022, n. 14). Un disegno che aveva il merito di azionare leve diverse, intervenendo su più strumenti, ma con il limite di pensare primariamente come elemento necessario per l’adeguata promozione di questi percorsi il loro progressivo avvicinarsi alla sfera del – normale – rapporto di lavoro subordinato, foriero di maggiori tutele. Un disegno peraltro crollato in tutte le sue parti, con la Corte Costituzionale che è addirittura intervenuta (sentenza n. 70/2023), dichiarando l’incostituzionalità di un comma della Legge di Bilancio del 2022 dedicato proprio ai tirocini extracurriculari e così paralizzando anche il successivo iter di approvazione di nuove linee guida in Conferenza Stato-Regioni.
Non si tratta, ovviamente, di ipotizzare una totale deregolazione del tirocinio, anzi. È assolutamente condivisibile l’obiettivo della proposta di Direttiva di «migliorare e far rispettare le condizioni di lavoro dei tirocinanti e combattere i rapporti di lavoro regolari mascherati da tirocini», così come quello della proposta di Raccomandazione di «migliorare la qualità dei tirocini, in particolare per quanto riguarda i contenuti dell’apprendimento e della formazione e le condizioni di lavoro, con l’obiettivo di facilitare la transizione dall’istruzione, dalla disoccupazione o dall’inattività al lavoro». Questi obiettivi sono condivisibili e anzi da perseguire necessariamente, soprattutto alla luce delle evidenze raccolto anche dall’ultimo rapporto di monitoraggio ANPAL dedicato proprio ai tirocini extracurriculari in Italia.
L’elemento critico sta piuttosto nella progressiva riconduzione del tirocinio nello schema del lavoro salariato, prevedendo cioè che per evitarne l’abuso vada adeguatamente retribuito, salvo eccezioni particolari. Così facendo, ci si allontana progressivamente da ciò che il tirocinio è – o dovrebbe essere, il condizionale è d’obbligo – almeno in Italia: un percorso di formazione che non costituisce un rapporto di lavoro. Col rischio di trasformarlo in ciò che le proposte europee vogliono strenuamente combattere: lavoro povero. Non è difficile immaginare che, a fronte di un’indennità corrisposta, assimilabile o comunque vicina a quanto altri lavoratori dipendenti sono retribuiti, un datore di lavoro si aspetti dal tirocinante lo svolgimento di attività produttive, mentre invece tutta la sua esperienza nel contesto lavorativo non dovrebbe avere altri scopi se non quelli di una migliore formazione e orientamento. Così come, tenendo come riferimento il contesto italiano, si può immaginare un sistema di tirocini curriculari nelle imprese più grandi che possono permettersi, concependoli in un’ottica di recruiting di nuove risorse, tali investimenti, mentre le aziende meno strutturate dovranno farne a meno o ricorrere ad altri schemi giuridici, magari più tutelanti ma di certo meno formativi. E soprattutto il tirocinio extracurriculare, che negli anni ha ricevuto dal Programma Garanzia Giovani una spinta importantissima per la sua diffusione, veda definitivamente abdicata ogni sua finalità formativa e sia di fatto concepito, dalle imprese, quale un più o meno lungo periodo di prova.
La storia si ripete, verrebbe da dire. Con un balzo indietro nel tempo di più di un secolo, se osserviamo l’Italia di inizio Novecento si nota una dinamica simile a quella finora descritta, nei confronti di ciò che era originariamente chiamato (e viene ancora così chiamato dal Codice civile) tirocinio: l’apprendistato. Soppresse le corporazioni di arti e mestieri, nell’ambito del quale era puramente (anche se non esclusivamente) un percorso formativo, l’apprendistato viene progressivamente attirato, dall’azione combinata del legislatore e della contrattazione collettiva, nell’alveo del lavoro subordinato. Pier Antonio Varesi ha descritto questo processo come «un nitido disegno volto ad equiparare gli apprendisti, in campo previdenziale ed assistenziale, ai lavoratori subordinati» (P.A. Varesi, I contratti di lavoro con finalità formative, Franco Angeli, 2002, p. 40). Con il rischio – puntualmente realizzato – di equiparare apprendistati e normali lavoratori tout court, in ciò contribuendo – paradossalmente – al declino dell’apprendistato, ridotto a lavoro povero a scarso o nullo contenuto formativo.
In sintesi, l’intervento Europeo sembra pensare ai tirocinanti europei primariamente come lavoratori, ed interviene quindi per migliorare le loro condizioni di lavoro. È giusto e necessario aggiornare il framework per i tirocini di qualità del 2014, così come approvare una Direttiva che vada a potenziare il tirocinio e soprattutto a tutelare i tirocinanti. Questi punti, così come numerosi elementi positivi contenuti nelle due proposte e qui non approfonditi per ragioni di spazio, sono assolutamente condivisibili. Le criticità nascono quando sembra emergere, nemmeno troppo celato, il disegno di ricondurre ex pluribis unum: l’idea cioè che standardizzando il tirocinio, attraverso l’adozione di criteri che dimenticano l’eterogeneità – almeno italiana – con cui si fa ricorso a questo strumento, e soprattutto la sua vera natura formativa, sia possibile garantire migliori esperienze ai tirocinanti. Innescando però una reazione opposto a quella auspicata: trasformare il tirocinio in un periodo di lavoro sottopagato, che è poi paradossalmente l’elemento critico da cui prendono le mosse le stesse proposte europee.
Fonte: ADAPT – Matteo Colombo –